Quattro tappe, in un tour agroalimentare-turistico per la Sardegna, volte a riscoprire un fiore all’occhiello della cultura agroalimentare sarda: la panificazione. La riscoperta di un patrimonio millenario negli ultimi tempi accantonato a favore di una produzione industrializzata fatta con grani moderni, spesso di pessima qualità e con lievitazioni veloci e non biologiche dettate dai nuovi ritmi che la vita ci impone.

Solo ultimamente ci si sta avviando verso un ritorno alle origini, alle tradizioni dimenticate, ad una produzione più consapevole e rispettosa dei ritmi della natura. Ortacesus, Sanluri, Settimo e Cagliari sono state le protagoniste di questo itinerario turistico-agroalimentare inteso a valorizzare la Sardegna anche da un punto di vista insolito e diverso rispetto a quello classico che vede nel connubio Sardegna=Mare o Sardegna=Pastorizia le sue espressioni più immediate ma riduttive. Quattro tappe per toccare con mano l’esperienza della panificazione attraverso laboratori didattici interattivi.

La Sardegna infatti è anche custode di tradizioni millenarie in tema di pratiche di panificazione, coltura del grano, molitura, simbologia e ritualità legate al mondo del pane. Attraverso queste 4 tappe abbiamo riscoperto queste tradizioni che partono tutte dal protagonista per eccellenza di tutto questo: il grano. La Sardegna è stata da millenni il ventre fertile per la coltivazione di grani antichi, dal grano monococco che risale a 10.000 anni fa al più conosciuto grano Cappelli selezionato solo nel 1915 ma anch’esso inserito nell’elenco dei pregiati grani antichi: grani dimenticati a favore di grani moderni che per resa ed estensione nella coltivazione sono certamente più appetibili per la grande industria. Oggi si va verso la riscoperta di questi grani antichi, alcuni solo anagraficamente moderni e frutto di selezioni genetiche (vedi Cappelli e Verna), altri nei quali l’intervento dell’uomo è stato quasi del tutto assente, ma tutti indistintamente coltivati secondo un preciso disciplinare nel rispetto di un’agricoltura biologica e naturale, non estensiva ed attenta. Proprio il grano antico Cappelli che nei primi decenni del secolo scorso copriva il 60% della coltivazione nazionale venne soppiantato da cultivar di grano duro più produttive ma di minor qualità. Il Cappelli venne quasi dimenticato e relegato a grano di nicchia solo in alcune regioni. In Sardegna è nato un consorzio per tutelare questo grano antico e per rilanciarlo sul mercato.

 

 

A Sanluri, dopo la visita al Museo del Pane dove abbiamo ripercorso la produzione del pane dalle prime coltivazioni e raccolta del grano con strumenti dai più rudimentali a quelli odierni, abbiamo assistito alla lavorazione del pane Civraxu, simbolo di questo paese. Il Civraxu vanta una storia antica che risale addirittura al 235 a.c. quando antiche legioni romane misero a ferro e fuoco la Sardegna vincendo la resistenza degli stessi sardi e dei cartaginesi che già la dominavano. Uno di questi romani venne soccorso da una vedova sanlurese e suo figlio e per ricompensarli si narra che costruì loro un forno nel quale cominciarono a cuocere un pane prodotto con il grano coltivato nei campi circostanti. Così nacque il Civraxu (dal latino cibarius) che divenne il simbolo del paese. Un pane prodotto con semola e lievito madre e che rimane morbido per tanti giorni, riprendendo morbidezza una volta messo in forno a scaldare e che anche da raffermo, condito con una buona salsa di pomodoro è di una bontà incredibile. Abbiamo poi terminato il percorso con la visita al Castello di Sanluri, altra icona storica (di età medievale) sanlurese accanto a quella di carattere agroalimentare del Civraxu.

 

A Settimo abbiamo potuto visitare il Borgo del Pane, un piccolo agglomerato urbano dove si è cercato di regolarizzare la tradizionale produzione domestica del pane che fino a pochi anni fa avveniva sottobanco per arrotondare il bilancio famigliare. Un lavoro sommerso che grazie all’intuizione dell’Amministrazione comunale è stato finalmente regolamentato e portato alla luce. Su moddizzosu o pane coccoi è l’icona di Settimo. Si è cercato di valorizzare una filiera corta che va dalla coltivazione del grano alla sua macinazione, per finire con la produzione del pane vero e proprio. In questo modo si salvaguarda la tradizione secolare dandole un impulso maggiore ed una maggiore visibilità facendola uscire allo scoperto. Per il fabbisogno dei forni si utilizza il grano antico Cappelli che però comincia a non essere più sufficiente visto l’aumento esponenziale che ha avuto la produzione. Il grano viene macinato a pietra nell’Antico molino Mascia a conduzione famigliare.

 

 

Infine siamo approdati a Cagliari, dove per prima cosa abbiamo potuto ripercorre le antiche vie delle panetterie della città site nel quartiere di Villanova. Il pane veniva fatto dalle “panettiere” donne forti e caparbie che riuscivano con il loro lavoro a mantenere la propria famiglia e contribuivano a risollevare l’economia della città. Cagliari, a differenza degli altri paesi, non ha un pane identitario, un pane specifico della città. Ma essendo il fulcro in cui le varie culture e tradizioni confluivano e confluiscono, è rappresentativa di tutte le tipologie di pane presenti in Sardegna. La visita si è poi spostata a quella che è l’icona agroalimentare della città: il Mercato di San Benedetto. Il Mercato più grande d’Italia e uno dei più importanti d’Europa. La storia di un popolo passa anche per ciò che quel popolo mangia e niente più di un mercato ci racconta tutto questo. Abbiamo infine concluso con una degustazione di prodotti tipici biologici: il pane della storica panetteria Porta (del 1918) e salumi e formaggi tipici della Bottega dei Cherchi, un’istituzione a Cagliari.

Conclusioni: grazie all’Agenzia Laore e all’Ecoistituto del Mediterraneo per aver avviato questi percorsi di valorizzazione e riscoperta di un’antica tradizione agroalimentare sarda come la panificazione. Un’alimentazione più sana e consapevole passa anche attraverso la conoscenza della materia prima e delle tecniche che si usano per trasformarla e credo che questo percorso abbia agevolato tale conoscenza e possa spingere il consumatore a prediligere tali produzioni locali al posto di quelle, sicuramente meno attente, propinate dalle grandi industrie.